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Carbon majors e ondate di calore

Carbon majors e ondate di calore

Lo studio Systematic attribution of heatwaves to the emissions of carbon majors (pubblicato su Nature il 10 settembre 2025) analizza in modo sistematico quanto le emissioni delle grandi aziende produttrici di combustibili fossili e cemento – i cosiddetti carbon majors – abbiano contribuito all’aumento in frequenza, intensità e probabilità degli eventi di ondate di calore nel periodo 2000-2023. Lo studio rafforza il legame causale tra emissioni specifiche ed eventi estremi.

Ciò ha rilevanza non solo scientifica, ma anche giuridica e politica per la responsabilità delle aziende. Le emissioni delle carbon majors contribuiscono in modo sostanziale: circa la metà dell’aumento dell’intensità delle ondate di calore rispetto al periodo preindustriale può essere ricondotta a queste aziende. Anche quelle minori hanno un effetto non trascurabile: contributi per qualche decina di eventi che altrimenti sarebbero stati «quasi impossibili» senza il loro contributo.

L’intensità media delle ondate è aumentata nel tempo: circa +1,4 °C per il decennio 2000-2009, +1,7 °C nel 2010-2019, e +2,2 °C nel periodo 2020-2023, rispetto al periodo preindustriale.

Lo studio ha analizzato 213 aziende tra cui l’italiana Eni.

Le emissioni della sola Eni sono state sufficienti a rendere possibili 50 delle 213 ondate di calore analizzate tra il 2000 e il 2023. In altre parole, in un mondo ipotetico in cui esistessero soltanto le emissioni di Eni, si sarebbero comunque verificate 50 ondate di calore, a dimostrazione del ruolo significativo del loro contributo individuale al cambiamento climatico. Incluse le ondate di calore del luglio-agosto 2003, agosto 2011, agosto 2018 e giugno 2019 in Italia.

Il contributo delle compagnie petrolifere e del gas all’aumento delle temperature medie globali della superficie terrestre nel periodo 1950-2023, rispetto alla media del 1850-1900. Ogni colore indica una compagnia, mentre il grigio rappresenta altre fonti di aumento della temperatura. (Dallo studio)

 

Stefano Nespor, avvocato, direttore della Rivista Giuridica dell’Ambiente online [14/09/2025]

Uno studio recentemente pubblicato su Nature stabilisce che le emissioni di gas serra provocate dalle 180 maggiori multinazionali nel settore del petrolio (le c.d. carbon majors) hanno contribuito in maniera determinante ad almeno la metà degli oltre 200 eventi estremi provocati dall’incremento delle temperature verificatisi dal 2000 al 2023. Lo studio inoltre offre una stima del contributo delle più importanti società nel provocare ciascuno degli eventi estremi analizzati.

Sono risultati che offrono un rilevante contributo nella source attribution science, un settore della attribution science che si propone di individuare e quantificare in termini probabilistici il contributo causale al verificarsi di eventi estremi da parte di singoli Stati o, come in questo caso, di singoli soggetti.

Si tratta di risultati, inoltre, che hanno un immediato riflesso giudiziario, perché offrono un sostegno scientifico a quelle controversie climatiche che, in sempre maggior numero (si veda, aggiornato al 2023, il rapporto dell’UNEP Global Climate Litigation Report), sono promosse nei confronti delle multinazionali del petrolio per ottenere il risarcimento dei danni provocati da specifici eventi estremi con riferimento ai quali si può affermare di un loro contributo causale.

Tuttavia, il riconoscimento del nesso di causalità tra il comportamento consistente nelle emissioni e lo specifico evento dannoso, anche ricorrendo a dimostrazioni di carattere probabilistico (in molti ordinamenti ammesse nel diritto ambientale), comporta per i danneggiati oneri probatori non facili da assolvere.

Il tentativo più noto al riguardo è stato effettuato da Saúl Luciano Lliuya, un contadino peruviano che aveva perso la maggior parte dei suoi campi a causa dell’innalzamento delle acque di un lago a causa dello scioglimento dei ghiacciai per il surriscaldamento globale. Sostenuto da varie associazioni ambientaliste, Lliuya ha promosso in Germania una causa per ottenere dalla RWE, la maggiore società energetica tedesca, un risarcimento di 17.500 dollari, in proporzione al contributo della società alle emissioni globali, stimato nella misura dello 0,47%. Lliuya ha perso, ma la Corte d’appello, pur rigettando la richiesta di risarcimento perché il danno non era provato, ha riconosciuto che esiste un nesso giuridicamente rilevante tra le emissioni di CO₂ prodotte da una multinazionale e i danni che derivano per chi si trova esposto alle conseguenze della crisi climatica.

È un successo, perché si deve tenere conto del fatto che l’istituto della responsabilità extracontrattuale, come è fissato nei codici e nelle stratificate costruzioni giurisprudenziali, è sempre arretrato rispetto alle nuove esigenze della società e dei rapporti economici. Di conseguenza le risposte offerte nella pratica e dai giudici in questo settore alla pressione della realtà e alle richieste che sorgono dalla società anticipano le riflessioni teoriche e la sistemazione normativa.

Stefano Caserini, Professore di Mitigazione dei cambiamenti climatici e dell’impatto ambientale all’Università di Parma [15/09/2025]

Lo studio è importante sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, perché ci ricorda che a livello scientifico è ormai scontato che ci sia una proporzionalità tra le emissioni di CO2 (che sono dovute principalmente all’uso dei combustibili fossili) e l’aumento di temperatura, e gli impatti conseguenti. E più passa il tempo più questo collegamento viene meglio precisato, nei dettagli, arrivando a definire come in questo studio il nesso fra le emissioni cumulate, ossia la somma delle emissioni storiche di tanti decenni, di singoli soggetti, e i morti nelle ondate di calore. È un legame che non vale solo per le grandi aziende del mondo fossile, ma anche per gli Stati. E in futuro si potranno stabilire legami con altri impatti, come la perdita di biodiversità, i danni sulle rese agricole o l’acidificazione del mare.

In più, lo studio ci ricorda anche che questa proporzionalità implica che, se si vuole limitare l’aumento delle temperature globali e fermare l’aumento delle ondate di calore, c’è una quantità finita di emissioni possibili di CO2. Quindi ora il punto non è solo attribuire le responsabilità sulle ondate di calore già avvenute e causate dalle emissioni passate, ma portare queste aziende, così come gli Stati, a essere più seri, più ambiziosi nella riduzione delle emissioni. Senza impegni più coraggiosi, fra un po’ di anni dovremo discutere le responsabilità di eventi estremi molto più distruttivi e mortali di quelli che ci sarebbero se agissimo in modo rapido e drastico. Sappiamo che non è facile parlare di cambiamenti climatici mentre è in corso un genocidio. Ma la speranza è che questi studi servano per richiamare alle proprie responsabilità una classe dirigente industriale e politica che ancora pensa che non sia necessario impegnarsi seriamente ora a ridurre le emissioni di gas serra.

Approfondimenti

Mapped: How climate change affects extreme weather around the world, Carbon Brief