COP15 sulla biodiversità: il punto

La COP15 sulla biodiversità si è svolta dal 7 al 19 dicembre a Montreal in Canada. Stiamo chiedendo un commento a esperti italiani di biodiversità. In aggiornamento.

Lorenzo Peruzzi, Presidente del corso di Laurea triennale in Scienze Naturali e Ambientali all’Università di Pisa [22/12/2022]

Sono rimasto favorevolmente colpito dalla decisione presa nell’ambito del COP15 sulla biodiversità di Montreal. Il problema principale in Biologia della Conservazione è infatti la sottrazione di habitat a causa delle attività umane, per cui avere a livello globale entro il 2030 almeno il 30% di superficie protetta mi sembra un primo importante passo verso azioni concrete ed efficaci. Bisogna investire, a livello globale e nazionale, su questo tipo di azioni e non adagiarsi solo sul racconto mediatico dei “miliardi di alberi” da piantare, che nell’ottica della conservazione della biodiversità non servono praticamente a niente. Le aree protette, soprattutto in Italia, sono spesso vissute come un fastidioso fattore limitante, mentre rappresentano l’unica via per porre un freno alla enorme perdita di biodiversità che stiamo osservando, che non riguarda solo grandi mammiferi o comunque organismi a noi più affini, ma anche piante, funghi, invertebrati e microorganismi. Boschi e praterie naturali, inoltre, possono efficacemente contrastare anche il cambiamento climatico.

Valeria Barbi, docente e consulente esperta di biodiversità e cambiamenti climatici [20/12/2022]

L’approvazione del Biodiversity Frameworks post-2020 è stata accolta con plauso dalla comunità internazionale e da quei pochi media che, almeno a conclusione del negoziato, hanno voluto spiegare che cos’è successo a Montreal.

Tuttavia, è innegabile che il percorso che ha portato all’accordo – e che ha incontrato lo scontento di svariati paesi africani, come la Repubblica Democratica del Congo – così come la mancanza di Stati Uniti e Vaticano (che, ricordiamolo, non hanno mai ratificato la Convenzione sulla Diversità Biologica e che costituirebbero importanti fari guida per una buona fetta della popolazione mondiale), costituiscono un problema rilevante. A questo si aggiunge il fatto che l’accordo non è legalmente vincolante lasciando notevole spazio d’azione agli Stati.

L’impegno di proteggere il 30% dei mari e delle terre entro il 2030 è un ottimo risultato soprattutto perché si basa su fondamenta scientifiche visto che si ispira alla teoria di E. O. Wilson che per salvare il pianeta sarebbe necessario proteggerne almeno la metà. Rilevante, a questo proposito, il dibattito su come l’imposizione dall’alta di questo obiettivo richiami a una visione colonialista della conservazione ed è auspicabile che, nel metterlo in pratica, si coinvolgano le comunità locali e venga loro data autonomia di gestione o co-gestione insieme alle istituzioni nazionali.

Ciò detto, è evidente che la cooperazione internazionale continua ad essere un importante motore d’azione così come i negoziati sono un’arena di dialogo, confronto e controllo vitale per le sorti del pianeta. Ma la natura ha bisogno di uno sforzo in più che parta dall’educazione nelle scuole, passi per un’informazione adeguata da parte dei mezzi di comunicazione e coinvolga un’ampia gamma di stakeholder: dalle aziende, alle istituzioni locali e nazionali, ai cittadini. Prima ancora di un accordo globale è necessaria una rivoluzione del pensiero comune che evidenzi come la biodiversità sia il pilastro della nostra esistenza e, da essa, dipenda ogni nostra azione, ogni bene o servizio di cui usufruiamo ogni giorno, nonché l’equilibrio a livello internazionale visto che, anche gli obiettivi dell’Agenda 2030 dipendono fortemente dalla sua tutela.

Piero Genovesi, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale [20/12/2022]

L’approvazione del Global Biodiversity Framework, il Piano globale per la biodiversità adottato a Montreal dalla 15° Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Biodiversità, può rappresentare un punto di svolta per la tutela delle specie e degli habitat a scala globale, perché il piano ha una visione di lungo termine (fino al 2050) include impegni ambiziosi – quali proteggere almeno il 30% delle terre e dei mari, prevenire ulteriori estinzioni, abbassare del 50% i tassi di introduzione di specie invasive – e identifica anche le risorse che andranno rese disponibili, almeno 200 miliardi l’anno tra fondi privati e pubblici. Sarà essenziale monitorare i progressi nell’attuazione del Global Biodiversity Framework, e per questo sono stati identificati una serie di indicatori, e si creerà un gruppo di lavoro di esperti che seguirà il monitoraggio del piano.